Abbandono della famiglia: reato e conseguenze

L’abbandono della famiglia è un reato aggravante, previsto dall’art. 305 del codice civile. Molti lo commetteranno facilmente, per ignoranza o con evidente malizia. L’abbandono familiare, come reato, consiste in:

  • abbandonare un figlio (che si ha l’obbligo di mantenere), esponendolo a sofferenze fisiche o morali;
  • inadempimento in malafede dell’obbligo alimentare previsto dalla legge;
  • mancato pagamento in malafede, per 2 anni, della pensione di mantenimento stabilita in giudizio.

Gli atti menzionati sono considerati reato solo se commessi da una persona che ha l’obbligo legale di mantenere qualcuno, rispetto a chi ha diritto agli alimenti (ad esempio, marito e moglie o genitori).

Secondo il Codice della famiglia, l’obbligo di mantenimento sussiste tra marito e moglie, genitori e figli, colui che adotta e adotta, nonni e nipoti, fratelli e sorelle e altre persone previste dalla legge (ex il cui matrimonio è stato sciolto per divorzio o annullato, il marito che ha contribuito al mantenimento del figlio dell’altro coniuge, ecc., in tali casi purché le condizioni in cui sussiste tale responsabilità). Nella maggior parte dei casi l’obbligazione ha carattere di reciprocità, cioè chi ha l’obbligazione alimentare può diventare, cambiando la situazione concreta, chi ha diritto agli alimenti.

Come viene punito l’abbandono della famiglia

In caso di abbandono familiare l’azione penale fa scattare la preventiva denuncia al danneggiato e la conciliazione delle parti rimuove la responsabilità penale.

Se le parti non si sono riconciliate ma, durante il processo, l’imputato adempie ai suoi obblighi, il tribunale, qualora accerti la colpevolezza, pronuncia nei confronti dell’imputato la sua condanna con la sospensione condizionale dell’esecuzione della pena.

La revoca della sospensione condizionale avviene solo se, durante il periodo di prova, il condannato commette nuovamente il reato di abbandono familiare.

L’abbandono della famiglia è punito nei casi previsti dall’art. 305 CP, lit. a) sì b) con la reclusione da 6 anni a 2 anni o con la multa, e nel caso previsto in lett. c) con la reclusione da 1 a 3 anni o con la multa.

Nel caso di un genitore obbligato a pagare il contributo al mantenimento dei figli all’altro genitore, si trasferisca all’estero, ad esempio in Romania, ciò non lo pone al riparo da possibili conseguenze.

Sul piano civile si potrà comunque agire presso le autorità rumene affinché vengano pagate le somme dovute, eventualmente mediante pignoramento dei beni.

Sul piano penale potrà essere comunque condannato dal Tribunale penale italiano (competente in quanto Tribunale del luogo dove il creditore di diritti alimentari risiede). Probabilmente la pena prevista dalla prima condanna verrà sospesa ma, in caso di recidiva, potrà essere condannato una seconda volta con revoca del beneficio della sospensione condizionale e conseguente emissione di Mandato di Arresto Europeo.

Quindi, anche se il recupero delle somme al lato pratico potrebbe essere difficoltoso, tuttavia la possibilità di una condanna penale e relativo mandato di arresto generalmente dissuade il debitore dal proseguire la sua condotta.

Alimenti per i figli in caso di divorzio

Gli alimenti (ufficialmente chiamati alimenti minori) è l’obbligo del genitore non affidatario (o genitore affidatario non residente) a favore del figlio, stabilito a seguito dell’emissione di una sentenza di divorzio o della separazione dei genitori non sposati. Questo tipo di obbligo è generalmente valido nel mondo per i genitori divorziati. C’è la possibilità di stabilire la pensione di mantenimento in denaro o in natura. In Romania, l’obbligo è regolato dagli articoli 529 – 534 del nuovo codice civile. Se nel vecchio codice civile la possibilità del pagamento in natura esisteva da un punto di vista teorico, la giurisprudenza rumena non la applicava privilegiando il pagamento degli alimenti in contanti.

Per obbligare un debitore in uno Stato al di fuori dell’Unione Europea a pagare le spese di mantenimento, è necessario presentare ricorso ai tribunali dello Stato in cui si richiede l’esecuzione della sentenza. Le convenzioni internazionali possono aiutarti a far rispettare l’obbligo di mantenimento legale all’estero.

Per obbligare un debitore in uno stato dell’Unione Europea a pagare le spese di mantenimento, la procedura è più semplice e diretta, anche se debitore e creditore si trovano in due paesi diversi.

Criteri per la determinazione dell’assegno di mantenimento dei minori

In Romania solitamente si dispone che il genitore non collocatario versi all’altro genitore per le spese di mantenimento dei figli una percentuale del proprio reddito (solitamente un terzo, oppure un sesto a ciascun figlio in caso siano più fratelli, ecc.). Purtroppo questo sistema presenta due inconvenienti: innanzitutto è difficile dimostrare quanto guadagna effettivamente una persona, a maggior ragione nei casi in cui cambi spesso lavoro , abbia un’attività in proprio, lavori in nero ecc. Inoltre, non si tiene conto del principio di responsabilità e di tutela dei minori: il genitore dovrebbe sempre e comunque garantire i mezzi di sussistenza dei propri figli, indipendentemente dal fatto che lavori o meno.

In Italia di solito il Giudice prevede una somma fissa mensile. Tale somma tiene conto delle necessità del minore ma anche del tenore di vita di cui il minore godeva in costanza di matrimonio, oltre che naturalmente delle capacità economiche del genitore obbligato. Tuttavia, qualunque siano le condizioni economiche e lavorative del genitore, viene sempre prevista una somma minima, anche nel caso in cui l’obbligato non lavori, a meno che non sia affetto da invalidità accertata e dimostrata.

Infine, va tenuto presente che l’assegno di mantenimento può essere sempre modificato mediante ricorso al Giudice. Ciò è utile in special modo in quei casi in cui, ad esempio, sia stata una sentenza rumena a prevedere una determinata somma (solitamente bassa rispetto al costo della vita in Italia), ed il minore viva in Italia. A quel punto il Giudice italiano aumenterà l’importo dell’assegno adeguandolo ai parametri vigenti nel Paese dove il minore vive.

Molestie sessuali sul posto di lavoro

Le donne in Italia guadagnano meno degli uomini, anche se svolgono lavori simili. Se hanno il coraggio di voler avere un figlio, vengono guardati in modo diverso dal datore di lavoro e in alcune aree non hanno nulla da cercare nelle posizioni dirigenziali. Se prendiamo in considerazione anche le molestie emotive o addirittura sessuali, la situazione non è affatto rosea. La donna deve combattere i pregiudizi.

Che il capo ti inviti a un “caffè” o che uno dei tuoi colleghi ti “appenda” durante il servizio non è più una novità. Gli uomini di solito fanno commenti sull’aspetto fisico dei loro colleghi o addirittura chiedono dettagli sulla loro vita intima. Bene, tutto questo si chiama molestia sessuale e non dovresti accettarlo. Non lo accetta nemmeno se sta scherzando.

Questi comportamenti sono severamente puniti dalla legge italiana, in questi casi è bene rivolgersi ad un avvocato.

Esempi di molestie sessuali sul posto di lavoro

Gli esempi ulteriori in questo campo sono innumerevoli. Molte sono le sfumature che vanno da un sincero e gentile complimento alla molestia vera e propria.

Se dico “che bel vestito che hai oggi”, normalmente sto facendo un complimento gentile. Se invece dico “che bel vestito aderente che hai, ti si vedono tutte le curve”, allora in tal caso possiamo dire che il limite è stato sorpassato.

Se aiuto una collega a togliersi il cappotto e ad appenderlo all’attaccapanni può essere un comportamento cortese. Ma se approfitto della vicinanza fisica per un contatto non voluto allora anche qui ho oltrepassato il limite.

Cosa dice la normativa penale e giuslavoristica

La legge di bilancio in vigore dal 01.01.2018 ha previsto due nuove norme volte a tutelare chi agisce in giudizio per molestie o molestie sessuali sul luogo di lavoro e contro le conseguenti discriminazioni.

Il datore di lavoro deve assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità e la dignità dei lavoratori. E’ altresì incoraggiato ogni accordo con le organizzazioni sindacali dei lavoratori (informazione, formazione del personale ecc.) volto a prevenire questo fenomeno.

La nuova norma prevede che la lavoratrice o il lavoratore che denunci discriminazioni per molestie sessuali sul luogo di lavoro non può essere sanzionato, né licenziato o trasferito e neppure affidato ad altre mansioni, in conseguenza della denuncia.

Si parla a questo proposito di “licenziamento ritorsivo o discriminatorio”, che è nullo e comporta il diritto alla reintegra sul posto di lavoro, indipendentemente dalle modifiche apportate dal Job Act. Allo stesso modo sono nulli sono anche il cambio di mansioni nonché qualsiasi altra misura ritorsiva.

Tuttavia la tutela non è garantita nel caso in cui sia accertata, la responsabilità penale del denunciante per i reati di calunnia o diffamazione ovvero nel caso in cui la denuncia sia infondata.

Quanto alle sanzioni penali, bisogna stabilire fino a dove ci si è spinti. Come già detto, un pizzicotto sulle natiche, una toccatina alla scollatura della camicetta o un tentativo di bacio sul collo possono integrare il reato di violenza sessuale, reato che si configura anche in assenza di un rapporto sessuale vero e proprio.

Analoghe conseguenze ha anche il semplice ricatto (anche in modo velato) con il quale il datore di lavoro pone la propria dipendente di fronte alla scelta se sottostare alle sue avances o perdere il posto di lavoro. In questo caso si parla più propriamente del reato di mobbing.

Se invece si tratta di un comportamento sporadico potrebbe configurarsi il reato di tentata estorsione o di violenza privata. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, siamo di fronte al reato di violenza privata quando le avances del capo alle sue dipendenti vengono mosse abusando del ruolo di superiore gerarchico.

 

Avvocato Paolo Dall’Ara

paolo.dallara.studio@gmail.com

Attitudine delinquenziale: cos’è e cosa ne consegue

Il “vizio delinquenziale” è la condizione della persona che, svolgendo con insistenza un’attività criminale, dimostra di aver acquisito una significativa attitudine a commettere atti previsti dalla legge penale.

Il legislatore italiano ha previsto due forme di pratica penale:

A. La consuetudine ex lege (art. 102 c.p.i.) interviene quando il soggetto:

– è stato condannato alla reclusione per un periodo complessivo superiore a 5 anni per tre reati della stessa natura commessi intenzionalmente negli ultimi 10 anni, e

– viene nuovamente condannato per un reato commesso intenzionalmente, della stessa natura e commesso in un periodo massimo di 10 anni dall’ultimo dei reati precedenti.

B. L’abitudine giudiziaria (apprezzata dal giudice di caso in caso – art. 103 c.p.i.) è rispettata:

– quando il soggetto è stato condannato per due reati intenzionali,

viene nuovamente condannato per un reato intenzionale, e

– il giudice, tenuto conto della natura e della gravità dei reati, dell’intervallo di tempo in cui sono stati commessi, della condotta e del tipo di vita dell’autore, nonché delle altre circostanze indicate dall’art. 133 cpi, ritiene che il colpevole commette crimini.

Le conseguenze della dichiarazione di abitudine delinquente riguardano:

– applicazione della misura di sicurezza;

– divieto permanente di esercizio dei diritti pubblici;

– l’impossibilità di beneficiare della sospensione condizionale della pena;

– mancata applicazione dell’amnistia e della grazia, salvo diversa disposizione del decreto;

– esclusione dalla prescrizione dell’esecuzione della pena per reati;

– aumento del termine stabilito per l’ottenimento della riabilitazione;

Come vengono classificate le pene nel diritto penale italiano?

Il diritto penale italiano distingue tra pene principali e accessorie.

Pertanto, secondo l’art. 17 c.p.i., le principali pene stabilite per i reati sono: l’ergastolo, la reclusione e la pena (multa), e le principali pene stabilite per le contravvenzioni sono: l’arresto e la multa. L’ergastolo, la reclusione e la detenzione sono pene detentive e le pene e le ammende sono sanzioni pecuniarie.

La legge 24 novembre 1981, n.689, prevedeva la possibilità di sostituire le principali pene detentive con il regime di semi-detenzione, con libertà vigilata o con la pena pecuniaria, se ricorrono determinate condizioni.

Successivamente il D.Lgs. 274 del 28 agosto 2000 ha introdotto / modificato altre due principali pene, gli arresti domiciliari e il servizio alla comunità, che hanno una limitata applicazione ai reati che sono di competenza del tribunale e quindi sostituiscono le pene detentive. L’articolo 3 del decreto in questione enumera solo i reati ai quali possono essere applicate tali pene: tra questi, percosse o furti condizionati dalla preventiva denuncia del danneggiato.

Articolo 20 c.p.i. specifica che le pene principali sono disposte dal giudice con sentenza e le pene accessorie derivano dalla pena principale, come suoi effetti criminali.

Schematicamente, avremo:

  • principali pene: ergastolo, reclusione, arresto, pena, multa, arresti domiciliari e servizio alla comunità;
  • sanzioni che possono sostituire le principali pene detentive: il regime di semi-detenzione, la libertà vigilata e la pena pecuniaria;
  • pene accessorie (art. 19 c.p.i.):

1) divieto di esercizio dei diritti pubblici;

2) divieto di esercitare una professione o un mestiere;

3) divieto legale;

4) divieto temporaneo di esercitare funzioni dirigenziali all’interno di organi di persone giuridiche o altre organizzazioni;

5) impossibilità di contrattare con la Pubblica Amministrazione;

6) risoluzione del contratto di lavoro;

7) decadenza o sospensione dell’esercizio dei diritti genitoriali;

8) sospensione dell’esercizio della professione o del mestiere;

9) sospensione da incarichi dirigenziali all’interno di persone giuridiche o altre organizzazioni;

10) pubblicazione della sentenza.

Le prime sette pene accessorie sono riservate ai delitti; le due successive accompagnano le contravvenzioni e la pubblicazione della sentenza è comune alle due forme di reato.

Il reato di prostituzione, favoreggiamento e sfruttamento nel diritto comparato

Le normative legali contemporanee nel campo della prostituzione femminile sembrano più rigide e inflessibili di quelle del Medioevo. Fino al secolo XV, le autorità consideravano la prostituzione un “male necessario”, utile alla società, che deve essere tollerato per non generare altri comportamenti ben più gravi. Ma oggi, in Italia e nel resto del mondo, la prostituzione è un reato?

Il reato di prostituzione nel mondo

Le autorità contemporanee, invece, vietano completamente la prostituzione in alcuni paesi. Ad esempio, negli Stati Uniti, ad eccezione del Nevada, la prostituzione femminile è vietata.

In Romania, la prostituzione era punibile secondo il vecchio codice penale con la reclusione da 3 mesi a 3 anni ma, con il nuovo codice penale, entrato in vigore il 1 ° febbraio 2014, la pratica della prostituzione in Romania non è più considerata un crimine, ma solo un reato, quindi le multe continueranno a fluire. Tuttavia, lo sfruttamento della prostituzione rimane punito.

In paesi come Germania, Paesi Bassi, Danimarca, la prostituzione è accettata a condizione che sia praticata in aree appositamente designate e che i professionisti paghino le tasse.

È accettato anche in alcuni paesi asiatici come il Giappone e la Cambogia. È vietato in Thailandia, ma ci sono più di un milione di prostitute nel paese. In Giappone, sebbene ci siano restrizioni, la prostituzione è diffusa.

Pertanto, il codice penale italiano non prevede più tale atto come reato. In pratica, l’atto di prostituzione non è punito ma lo sono le azioni legate alla prostituzione, ovvero le azioni di chi induce, promuove, favorisce o facilita la prostituzione di una persona. Il fatto è più grave quando è commesso da una persona che si avvale della sua condizione di pubblica autorità. La punizione è più pesante quando questi atti sono commessi su una persona minore o incapace.

In Spagna la legge è simile a quella italiana. Va notato che la legge spagnola non distingue in base al sesso della persona, ma solo in base all’età e alla capacità di esercizio o allo stato mentale.

Una visione interessante è fornita dal codice penale francese. La legge francese penalizza il cosiddetto comportamento aggressivo delle prostitute, come il reclutamento di clienti attraverso un atteggiamento che hanno in pubblico che provoca indignazione. In Francia, la legge mostra una tendenza a rafforzare la repressione contro la prostituzione e l’indulgenza per le prostitute.

Nel codice penale cinese, la prostituzione non è criminalizzata, è praticata liberamente come professione. Il pimping, invece, ovvero lo sfruttamento, è un reato previsto dal codice penale.

La nuova regolamentazione della prostituzione nella legge svedese è un’anteprima europea perché non punisce le prostitute ma i loro clienti. Il governo svedese ritiene che: “non è normale punire le persone che prestano servizi sessuali, al contrario, dovrebbero essere aiutate a rinunciare a questo stile di vita“.

Negli Stati Uniti, la pratica della prostituzione e del pappone è vietata, tranne nello stato del Nevada dove la prostituzione è legalizzata, essendo praticata liberamente come professione. Anche se nella maggior parte degli stati quelli che vengono puniti sono i clienti.

La legislazione in vigore nei Paesi Bassi, sia per quanto riguarda la prostituzione che lo sfruttamento, sono professioni che sono liberamente esercitate. La prostituzione, di per sé, è gratuita ma viene portata sotto il controllo dei governi locali nel tentativo di stabilire un migliore controllo sanitario delle prostitute. Il reato di sfruttamento è stato soppresso da una legge entrata in vigore il 1 ° ottobre 2000, tranne nei casi in cui la persona che pratica la prostituzione è minorenne.

In Svizzera, infine, la prostituzione è praticata liberamente, il legislatore non criminalizza questa attività, ma lo sfruttamento è criminalizzato nel codice penale, al titolo 5, “Crimini contro la moralità”.